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  • parole di silicio

    Non avevamo voglia di occuparcene, purtroppo pare sia diventato l’argomento di conversazione preferito nei migliori bar da Cantù a Misterbianco. Stiamo parlando di Chat GPT. Per i nerd e i super informati è semplicemente un “chatbot” basato su intelligenza artificiale; per tutti gli altri un incubo diventato realtà. (Ma innanzitutto è il caso di chiarire cosa sia: dicasi chatbot un'applicazione software utilizzata per interagire con le conversazioni umane in modo naturale. Nota: i chatbot sono di uso comune in molti settori per scopi diversi”). Ma perché temerli se sono “di uso comune in molti settori per scopi diversi”? Diciamolo subito: usando Chat GPT sembra di parlare con il computer cattivo di “2001 Odissea nello spazio”. È un programma di conversazione automatica che risponde alle nostre domande producendo quello che in gergo chiamiamo “contenuti”: poesie, discorsi, articoli, post, tesi di laurea. E qualsiasi altro testo scritto ci serva: dalla lettera alla morosa lontana, alla dichiarazione d’amore per la bella vicina del terzo piano. Qual è la forza di Chat GPT è presto detto: a differenza degli altri, “lui” usa un linguaggio molto simile al nostro. Qualcuno dice anche troppo. Chat GPT è realizzato da OpenAI, organizzazione non-profit dedicata all'intelligenza artificiale. Il suo ambito di attività è la promozione di tecnologia per il bene dell'umanità. Dovremo stare tranquilli, quindi. Ma ChatGPT è in grado di generare un livello di conversazione pari a quella di un super-erudito, uno di quei “saputoli” che sanno tutto di tutto. Il suo segreto è legato a un sofisticato modello di machine learning, ovvero alla capacità di apprendimento automatico da primo della classe. (Inutile dire che le sue stratosferiche prestazioni sono il risultato del duro lavoro di istruttori umani?). La sua bravura fuori dalla norma è il motivo che ha spinto le università degli Stati Uniti e dell’Australia a vietarne l'impiego. Il rischio è che la tesi di laurea la scriva l’astuto software, non Richard o Joan. “O tempora, o mores!” (o tempi, o costumi!) direbbe Cicerone che da bravo principe del Foro di scandali se ne intendeva, come ci potremo difendere da tanta artificiale genialità? A nostro avviso per prima cosa dobbiamo smetterla di dire “ha stato l’algoritmo”: l’algoritmo l’abbiamo scritto noi umani e la responsabilità è semmai nostra. In secondo luogo dobbiamo imparare a non avere paura della tecnologia: la vita media delle persone che hanno vinto la lotteria genetica - quelle nate nella parte giusta del pianeta – ha raggiunto livelli sino a pochi decenni fa impensabili. Se la nostra vita è più lunga, più sicura, più confortevole, lo dobbiamo alla scienza e a sua cugina la tecnologia. Anche per Chat GPT c’è quindi una soluzione: si tratta di scrivere regole sensate e dar vita a vigorosi anche se pacati controlli.

  • i miti non invecchiano mai

    Alzi la mano chi non conosce il “Canto di Natale” di Charles Dickens. La novella, trasformata dal genio di Walt Disney in uno stupendo cartone animato, è un esempio magistrale di quella che potremmo chiamare “brandizzazione narrativa”. Mentre i prodotti invecchiano e vengono sostituiti da nuove release più adeguate e performanti, se adeguatamente alimentati i brand hanno il dono della vita eterna. Come un modello d’auto, una marca di champagne o un’attrazione turistica, così anche una narrazione può legittimamente aspirare all’eternità. Basti pensare alle leggende che appartengono all’infanzia dell’umanità divenute pretesto narrativo nelle serie Marvel degli eroi norreni, o ai film che si rifanno alla tradizione omerica. Gli uomini, nessuno escluso, hanno bisogno di storie e di esse si nutrono sin dagli albori dell’umanità. Più di uno studioso di paleoantropologia non esita a sostenere che sono state le storie a farci diventare umani, ad aiutarci a far evolvere il linguaggio e insieme ad esso le strutture mentali che corrispondono ad un prima, durante e dopo nell’articolazione del pensiero. Uno degli esempi più fulgidi e resilienti al tempo di “brandizzazione narrativa” è la Famiglia Addams. Creata nell’ormai giurassico 1938, non solo resiste magnificamente al tempo, ma il concept narrativo diviene paradossalmente sempre più credibile col passare degli anni in virtù della crescente “mostrificazione” della società in cui viviamo. Al di là delle interpretazioni sociologiche che esulano da queste nostre noterelle sul marketing e la comunicazione, ci fa piacere segnalare l’ultima realizzazione della più affettuosa e umana “famiglia di mostri”. La firma quel genio del male che è Tim Burton creando una serie per Netflix destinata a restare nella storia del brand narrativo. La serie si intitola “Mercoledì”. E’ definita “commedia horror-fantasy” e narra le avventure di Mercoledì Addams alla scuola privata superiore Nevermore Academy dell'immaginaria cittadina di Jericho. Poiché detestiamo lo spoiler più dei palmer bucati lontano da casa in un giorno di pioggia, vi diciamo solo che Burton non ha perso il tocco creativo al nero di seppia che l’ha reso famoso, e che gli attori sono uno più bravo dell’altro. Solo la ricostruzione della cittadina di Jericho (come Gerico della Bibbia?) ricorda l’outlet di Serravalle, ma temiamo che anche questo sia un effetto Kitsch fortemente voluto dalla regia. Ultima (ma non ultima) considerazione: Mercoledì è un prodotto di comunicazione ben pensato, meglio scritto e ancor più ottimamente realizzato. E’ l’esempio magistrale di come la comunicazione trasforma un (buon) prodotto in un brand e un brand in un mito. Domanda delle cento ghinee: perché mai molte imprese d’eccellenza che progettano e producono prodotti che potrebbero sbaragliare il mercato, non lo comprendono? Siamo noi uomini di comunicazione ad essere a nostra volta incapaci di comunicare in modo efficace le ragioni del nostro lavoro? Mistero a cui forse neppure il redento Ebenezer Scrooge del Canto di Natale saprebbe dare risposta.

  • il colore di Babbo Natale

    Puntuale come una cambiale, quando arriva Natale c’è sempre qualcuno che tira fuori la storia della Coca-Cola. Sarebbe lei, il gigante gassoso di Atlanta, ad averlo vestito di rosso. Il cognato ingegnere, il capufficio enciclopedico, la figlia dei vicini al primo anno in Bocconi - i saputoli di ogni ordine e grado - sono pronti a giurarlo. Ma è andata davvero così? La risposta è no. Ma come vedremo in parte anche sì. In passato era verde I primi Babbi Natale seguivano la tradizione nordica: erano verdi ramarro. La leggenda di Babbo Natale sembra abbia avuto inizio nel IV secolo. Allora si chiamava Nicola, Vescovo di Myra in Turchia. L’immagine che la tradizione iconografica ci ha tramandato è quella di un uomo dalla pelle olivastra alto e magro, assai diverso dal signore corpulento che conosciamo oggi. Dichiarato santo, Nicola morì il 6 dicembre 343. Le leggende sui suoi miracoli sono millantamila: ancora oggi in molti paesi nordici si festeggia San Nicola il 6 dicembre facendo regali ai bambini. Come sempre accade, nel corso dei secoli l’immagine di San Nicola cambia e progressivamente assume l’identità di un uomo anziano con la barba bianca, tenuto al caldo da un cappotto di pelliccia. E poi divenne rosso Nel corso del tempo le cose continuano a cambiare: di punto in bianco Babbo Natale assume la livrea rossa. Perché ciò avvenne – caso, scelta grafica, ricerca di un maggior impatto visivo – è un mistero. Le prime illustrazioni di Babbo Natale vestito di rosso sono riprodotte su cartolina a Boston nel 1885. Per molti anni la versione verde convive con quella rossa. Finalmente, nel 1931 Haddon Sundblum, l’illustratore incaricato dalla Coca-Cola Company, inizia a raffigurare Babbo Natale in quella che è divenuta la versione istituzionale. E’ stata quindi la Coca-Cola a fissarne i caratteri? Parrebbe che no. Nel 1927, quindi ben quattro anni prima della Coca-Cola, il New York Times pubblica una descrizione più precisa di un identikit: “Altezza, peso e statura di Babbo Natale sono ormai definiti in modo preciso, così la barba bianca e il vestito rosso. Babbo Natale naso e guance rosse compare con il suo sacco pieno di giocattoli per i bambini”. Quando il marketing è creativo La campagna pubblicitaria Coca-Cola del Natale 1931 riscosse un successo incredibile e continua ad essere considerata uno più straordinari esempi di marketing creativo della storia. Da allora non c’è Natale senza spot Coca-Cola e la bevanda gassata diventa tutt’uno con l’immagine del corpulento omaccione vestito di rosso. La morale della storia potrebbe essere questa: non importa chi ha avuto per primo l’idea, ciò che conta davvero è la capacità di trasformare l’intuizione iniziale in progetto dandogli continuità e solidità nel tempo. Dicono siano stati i vichinghi i primi a scoprire l’America. Ma fu un certo Colombo a dare risonanza universale alla scoperta. Con il contributo qualche anno dopo di un certo signor Vespucci, che di nome non a caso faceva Amerigo. Che altro dire se non “Buon Natale” a tutte le donne e gli uomini di buona volontà?

  • è l'italia la prima della classe

    Incredibile ma vero: l’economia italiana sta vivendo una fase di rapida espansione. Secondo l’Istat il Pil segnerà quest’anno un più 3,9 % rispetto al 2021. Il dato è reso ancor più positivo dal fatto che non si tratta di un “rimbalzo tecnico”. Se consideriamo il più 6,7 % registrato l’anno scorso, il prodotto interno lordo del nostro paese supera i livelli pre-pandemia. Il dato ha sorpreso un po’ tutti. L’FMI (Fondo Monetario Internazionale) aveva preparato la maglia nera per la nostra economia. Sulla loro lavagna avevano attribuito alla Cina un 4,4 %, agli Stati Uniti il 3,7% e all’Eurozona il 2,8 %. Ultima l’Italia con un misero 2,3%. I dati macroeconomici che periodicamente aggiornano la situazione mondiale hanno permesso all’FMI di rivedere le previsioni migliorandole per l’Italia e peggiorandole per gli altri paesi. Albo signanda lapillo dies avrebbero commentato i nostri trisnonni latini. Frase che letteralmente significa "giorno da contrassegnare con un sassolino bianco", ovvero da ricordare a causa di un lieto, memorabile evento. Ma a parte la lecita soddisfazione di essere – una volta ogni tanto – i primi della classe, qual è la ragione della crescita? Chi e che cosa spingono in alto il PIL del nostro meraviglioso quanto problematico paese? Una spiegazione la offre la ricerca condotta da Nomisma per identificare le migliori imprese manifatturiere italiane. Il metodo utilizzato da Nomisma consiste nel selezionare le imprese che nell’arco di cinque anni hanno saputo mantenere un elevato livello di performance in modo continuativo. I principali parametri di valutazione sono: · crescita dei ricavi · crescita dei margini operativi · valore aggiunto per dipendente Nomisma ha preso in esame più di 73 mila imprese. Solo 5.198 hanno soddisfatto i severi “paletti” posti dall’indagine. I dati di queste aziende sono entusiasmanti: nel quinquennio 2016-2021 l’occupazione è cresciuta mediamente del 27%, i ricavi del 74%, il margine operativo lordo del 156%. Purtroppo Nomisma non comunica i nomi delle 5.198 imprese che “hanno fatto l’impresa”.Tuttavia i soliti bene informati sussurrano che tra loro ci siano brand come… pasta Rummo, Piaggio, caffè Borbonese, Dompé e la meravigliosa inimitabile Ferrari. Il denominatore che accomuna queste PMI (perché di medie imprese si tratta) è un mix virtuoso di investimenti mirati all’innovazione produttiva e perseguimento ossessivo della qualità. Gli analisti per una volta sono concordi: se la competizione si gioca sul terreno della qualità - ovvero dei prodotti “ben pensati e ancor meglio fatti” - le imprese italiane non hanno nulla da temere.

  • gioco, ergo sum

    Si sarebbe dovuta chiamare Legio, nel senso di legione infinita di giocattoli. Invece il fondatore Ole Kirk Christiansen, il geniale visionario che la inventò nel 1916, scelse “Lego”, contrazione di “leg godt” che in lingua danese significa “gioca bene”. Questa e molte altre notizie del magico mondo dei mattoncini colorati si possono leggere su “The Lego Story” edito da Mariner Boooks. Il libro è opera del giornalista Jens Andersen che in occasione dei novant’anni dalla fondazione ha avuto accesso all’archivio dell’azienda, la prima volta in assoluto. Qual è il segreto di un’azienda che, sopravvissuta a conflitti mondiali e all’occupazione nazista, ha superato svariati incidenti di percorso attraversando con sublime fiducia in sé stessa le più minacciose oscillazioni del gusto e delle mode? Giunta alla quarta generazione, Lego continua ad essere fedele ad una scoperta rivoluzionaria compiuta nei primi anni del Novecento da pensatori del calibro di Freud e Piaget: il valore creativo (e ri-creativo) del gioco. Incurante dei rischi che la produzione di un bene per definizione indistruttibile comporta (nel corso della pandemia ha aumentato le vendite del 21%) Lego continua ad andare controtendenza. Mentre molti brand puntano tutto sui canali digitali, l’azienda danese imperterrita continua ad aprire leggendari flagship store in tutto il mondo. Le ragioni del successo a nostro avviso sono tre. · La prima: la capacità di innovare seguendo lo spirito del tempo senza tradire la tradizione. (Esempio: l’accordo con l’universo di Star Wars) · La seconda: puntare sempre su prodotti duraturi che si possono tramandare di generazione in generazione · La terza: l’intelligenza creativa che ha concepito idee di gioco pensate per un pubblico di adulti (Esempio: le serie Scale Model per ingegneri e progettisti). Ultima (ma non ultima) considerazione sulle ragioni del successo di Lego. Nonostante che all’inizio del 2000 si sia trovata in grosse difficoltà finanziarie, Lego non ha mai smesso di lanciare nuovi prodotti e dare vita a nuove partnership con altri brand usando con coraggio e intelligenza la leva della comunicazione narrativa. Il risultato più importante (e per certi versi più incredibile) è che oggi Lego è uno dei pochissimi brand trasversali. Allo storico target “bambino” si è aggiunto quello degli adulti che amano giocare con i magici mattoncini inventando, creando o anche solo copiando da un modello esistente. Una straordinaria community mondiale ultra fidelizzata, un sogno da far leccare i baffi ad ogni bravo direttore marketing. Uno dei più orgogliosi adepti l’abbiamo incontrato due giorni fa. E’ un architetto milanese sulla settantina. Non vede l’ora di chiudere lo studio per le vacanze di Natale. Ha in mente di costruire una Vespa e una macchina per scrivere “Lettera 32”. Ci manderà le foto, dice. Ma abbiamo dovuto promettergli l’anonimato.

  • il far west dei senza controllo

    La storia è sempre quella: fregarsene delle regole e zero controlli. Stiamo parlando di criptovalute – le monete che pur non esistendo contano moltissimo - e del loro mercato. Che la settimana scorsa ha fatto “sbreng!” neanche fosse un Velosolex sollecitato oltre misura. (Se non sapete cosa sia e cosa abbia rappresentato il Velò per milioni di ragazzi negli anni ’60, leggetequi.) Tornando alle criptovalute, la storia di Sam Bankman-Fried fondatore della piattaforma Ftx per la negoziazione delle “monete che non ci sono” e titolare di molte altre società, è da manuale. Coccolato sino all’altro ieri nonostante le sue bizzarrie da nerdazzo talentuoso (amava presentarsi ai convegni in bermuda e infradito ai piedi) era famosissimo nel settore: Alameda una delle sue società - un hedge-fund altamente speculativo - era arrivata a capitalizzare quasi 32 miliardi di dollari. Poi un brutto giorno FTX ha portato i libri in tribunale. La crisi di liquidità conseguente al crollo delle quotazioni di alcune criptovalute ha svelato la solita vecchia storia di “vizi privati & pubbliche virtù”. Ovvero incroci illeciti tra diverse società di cui Sam Bankman-Fried è proprietario. Per farla breve, i soldi degli (ignari) investitori venivano impiegati per farsi – letteralmente – gli affari propri. Secondo le accuse, anche privati. Risultato: un milione di risparmiatori spennati come polli e (almeno) dieci miliardi di dollari andati in fumo. E così si scopre che anche nei mercati finanziari le società immobiliari che trattano gli investimenti più moderni al mondo (criptovalute e altri cazzabubboli da fantascienza cibernetica) si comportano esattamente come i magliari del gioco delle tre carte all’uscita del metrò. Anche la ragione è sempre la stessa: disprezzo delle regole e assenza di controllo. A ben vedere ciò che puntualmente succede quando si costruisce dove non si dovrebbe e cadono quattro gocce d’acqua in più.

  • il buon vecchio Joseph aveva ragione

    La notizia della settimana? Le grandi imprese tecnologiche americane licenziano. Secondo il sito Layoffs nel 2022 sono state licenziate 136.000 persone in circa 850 aziende. Ma si stima siano molte di più. Le aziende più famose che licenziano si chiamano Amazon, Twitter, Meta e Salesforce. Secondo gli economisti le ragioni sono da ricercarsi nella fine della pandemia che ha spinto il settore tecnologico all’inverosimile e all’inflazione galoppante. Joseph Schumpeter si fregherebbe le mani. Dobbiamo infatti a lui, talentuoso economista austriaco, la teoria della “distruzione creativa” (in tedesco suona ancora più terrificante: schöpferische Zerstörung) chiamata anche “burrasca di Schumpeter”. Questa teoria, elaborata verso la fine degli anni ‘50 del secolo scorso, è un derivato dal lavoro di Karl Marx e spiega il fenomeno dell'innovazione e del ciclo economico. Secondo lo studioso austriaco le “fasi di trasformazione sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite distruzione creativa alludendo, con questa espressione, al drastico processo selettivo che le contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano”. A conferma della teoria sciumpeteriana assistiamo oggi ad un fenomeno inaudito che gli americani chiamano “great redistribution”: non solo i talenti espulsi trovano immediata collocazione, ma le start-up californiane possono cogliere l’opportunità di accaparrarsi risorse ultra-specialistiche divenute improvvisamente disponibili nel mercato del lavoro. Una quantità incredibile di cervelli, di esperienze e di saperi che vanno ad arricchire le “nuove aziende del futuro” in modo inatteso e insperato. Insomma pare proprio che il buon vecchio Schumpeter abbia fatto bingo. Chi ne esce decisamente maluccio sono i così detti “grandi” della tecnologia. Figure sino ad oggi considerate alla stregua degli dèi dell’Olimpo come Zuckerberg, Musk e Bezos paiono decisamente ridimensionati. A questo proposito il Washington Post – non proprio un giornaletto – sferra le prime picconate. Ma come, afferma il giornale di proprietà dello stesso Bezos, non erano i grandi imprenditori visionari, l’avanguardia del nuovo modo di fare impresa? Invece, continua il giornale, le migliaia di licenziamenti indicano una perfetta continuità con il passato, esattamente come accadeva nel secolo scorso. Ma al di là del giudizio che possiamo dare su queste controverse figure, il dato significativo è l’incredibile forza vitale del capitalismo americano, la sua capacità di innovare, sperimentare, non avere paura del nuovo e delle nuove frontiere. Tutto quello che dovremmo imitare e far sistematicamente nostro. Altro che Halloween.

  • là, nella terra del prosciutto...

    Paola Maria ha una passione sfrenata. Lavorerebbe a maglia anche di notte se solo potesse. Le amatrici del tricot sono come i ciclisti, una categoria a parte. La loro è innanzitutto cultura del progetto: il piacere di affrontare e risolvere sfide complicatissime documentandosi su testi esoterici e sofisticati tutorial in lingua inglese o russa. Come i veri pescatori si limitano a fotografare il pescato per poi ributtarlo in acqua, così le vere tricottare regalano le loro sofferte creazioni ad amici e parenti estasiati. Questa storia non riguarda però l’arte della maglia e neppure quella dell’uncinetto. E’ (vuole essere) una piccola parabola su quella che viene pomposamente chiamata customer experience di solito proprio da chi se ne frega se l’”esperienza” del cliente è stata soddisfacente o meno. In ogni città di medie dimensioni ci sono parecchi punti vendita specializzati nello spaccio di lane e filati. Usiamo proprio questo termine rude perché di veri e propri pusher si tratta, con la loro clientela affezionatissima e il loro bravo repertorio di riti e miti. Inutile dire che anche Paola Maria aveva i suoi bravi riferimenti commerciali: si fa da X per comprare A e B; si va invece da Y per portare a casa C e D. Un brutto giorno (brutto davvero) scoppia la pandemia. E con la pandemia si esce solo per passeggiare il cane Gino. La Paola Maria da brava lombarda pragmatica non si scompone: chiede aiuto a Google. E Google che in fondo è un bravo ragazzo, risponde suggerendole tra gli altri anche un negozio on-line in provincia di Udine. Nasce così un rapporto commerciale a singhiozzo: con la fine della clausura anche Paola Maria ritorna a fare acquisti dai suoi vecchi pusher tradizionali. Ma ogni tanto, per che no?, una capatina all’e-commerce friulano se la concede. Purtroppo nell’ultimo acquisto on-line Paola Maria ha sbagliato quantità. Arrivata a tre quarti del lavoro – un corredino per bambini piccini – ha terminato la lana. Panico. Chi tricotta sa bene che ogni partita di lana viene colorata con un bagno ad hoc; è quindi indispensabile per terminare correttamente il lavoro rintracciare quella specifica partita. Che fare? Ci sono situazioni – e gli esperti di customer journey lo sanno benissimo – in cui il consumatore ha bisogno di un interlocutore umano. Una persona in carne ed ossa che presti ascolto e risolva il problema. Come ben sappiamo tutti noi consumatori, capita di rado. O addirittura non capita mai. Per ragioni di costi. Per imperizia. O anche per stupidità. Invece di un umano disponibile, c’è una macchinetta che dice “per parlare con il commerciale premete uno; per parlare con l’amministrazione premete due” e così via. Purtroppo, pigiando uno piuttosto che due quello che regolarmente si ottiene è un “… per ragioni di intenso traffico… ci scusiamo dell’attesa… per non perdere la priorità acquisita…” ed altre fesserie che fanno perdere tempo ai clienti e clienti alle aziende. Questa volta però le cose sono andate diversamente. A Paola Maria ha risposto un dipendente in carne ed ossa. Saputo il codice del bagno della lana che aveva terminato, è andato in magazzino senza metterla in attesa per verificare gli stock. E comunicarle, due minuti dopo, che il tanto sospirato gomitolo del colore xy sarebbe stato spedito immediatamente. Qualcuno obietterà che queste cose avvengono… perché l’azienda è piccola… perché si tratta di una struttura familiare… perché si è trattato di una botta di fortuna. Balle cinesi. Queste “cose” avvengono quando le aziende - piccole, medie, grandi o grandissime – mettono davvero il cliente al centro della relazione. Non è impossibile e neppure difficile, basta volerlo. Una vecchia ricerca di marketing svelava il segreto di Pulcinella: mantenere un cliente acquisito costa infinitamente meno che acchiapparne uno nuovo. Eppure gli esperti di funnel fanno finta di non saperlo. (A proposito, stavamo per scordacene: l’azienda che ha risolto i problemi di Paola Maria si chiama Vignarul-Lanaonline, San Daniele del Friuli. Il paese dove fanno il prosciutto crudo Dop famoso in tutto il mondo).

  • un minestrone non ci salverà

    Che sia stata un’estate particolarmente calda ce ne siamo accorti tutti. Poco alla volta un po’ tutti si stanno convincendo che il “climate change” non è una menata da ambientalista sciroccato ma una realtà con cui fare i conti. Secondo gli scienziati per contenere l’aumento delle temperature globali attorno a 1,5 gradi le emissioni di gas serra dovrebbero scendere del 43% entro il 2030. Purtroppo la realtà è un’altra: secondo gli esperti dell’Onu le emissioni invece di decrescere viaggiano allegramente verso un aumento del 10,6%. In buona sostanza questo è il tema centrale della conferenza Cop27 che si tiene in Egitto in questi giorni. Domanda delle cento pistole, la moneta preferita dai Tre moschettieri che poi come sappiamo erano quattro: qual è la hit parade degli inquinatori? Il "CO2 emissions of all world countries, 2022 Report", documento prodotto dalla Commissione europea, elenca le emissioni di anidride carbonica emesse per paese nel 2021. Come c’era da aspettarsi Cina, Stati Uniti, Ue, India, Russia e Giappone sono le aree economiche che emettono più CO2 nel mondo. I dati significati di queste aree sono i seguenti: · emissioni CO2: 67,8% (del totale emissioni) · popolazione mondiale: 49,2% · Pil prodotto: 62,4% La cosa grave è che in tutte le sei aree nel 2021 le emissioni sono aumentate rispetto all’anno precedente in cui sono state contenute a causa della pandemia. Il rapporto cita per prima la Cina. Non per ragioni di cortesia: è il paese che ne produce di più, il 33% del totale. Purtroppo, come comunicato da Pechino, il Celeste Impero non ha nessuna intenzione di ridurle e ha intenzione di aumentare le emissioni ancora per diversi anni. Contrariamente agli altri paesi industrializzati, Usa su tutti, che anno dopo anno stanno riducendo la quota a loro imputabile. A questo punto la domanda inevitabile è: cosa possiamo fare? Il paese più inquinante, oltre ad essere il più popoloso, è anche il più riottoso (eufemismo) ad uniformare le proprie scelte agli interessi del resto del mondo. Che possono fare le nostre PMI, spina dorsale del sistema industriale italiano? Protestare spruzzando un bel minestrone di verdure autoctone su un’opera d’arte a caso del ricco patrimonio culturale italiano?

  • "parmesan" lo dici a tua sorella !

    Amaretto Disaronno contro Lidl. Giuliani, impresa farmaceutica famosa nel mondo per l’Amaro Medicinale, contro Swisse. Budweiser, originale birra boema, contro copia made in USA. Sino al clamoroso caso dei formaggi “Parmesan” che col Parmigiano reggiano c’entrano come i famosi cavoli a merenda. Stiamo parlando della catena di furti (più o meno) legalizzata che coinvolge milioni di consumatori e miliardi di fatturato. Una catena spesso impossibile da spezzare (chiedere ai produttori italiani i cui brand sono puntualmente clonati in Cina) e che anche in caso di esito felice costa una paccata di soldi in cause legali oltre che incalcolabili danni al fegato dei derubati. Come ormai sanno anche i bambini di Calolziocorte, un conto è il prodotto le cui prestazioni possono essere imitate e superate, un altro è il brand. Il primo è per definizione migliorabile, sostituibile, superabile: basti pensare all’incredibile sviluppo dei motori termici. Il brand invece è come l’anima: impalpabile, incommensurabile, potenzialmente eterno. Scopiazzare un brand è l’equivalente del furto dell’anima, il motivo per cui alcune popolazione selvagge rifiutavano di farsi fotografare temendo, appunto, di perdere la loro identità segreta. Un brand raramente è frutto del caso. E’ il figlio della creatività, della tradizione, della ricerca e di un pizzico di fortuna: la magia non si pianifica al tavolo degli ingegneri. Secondo Philip Kotler, lo storico guru che ha allevato migliaia di marketer nel mondo, “il brand è tutto ciò che un prodotto o un servizio rappresenta per i consumatori”. Il brand è destinato a sopravvivere nella mente dei consumatori anche quando il prodotto non esiste più, perché è il frutto dell’investimento affettivo compiuto su di essi, la traccia della memoria e il ricordo di un passato che reputiamo felice. Ecco perché clonare un marchio è infinitamente più grave della pura e semplice scopiazzatura della formula di un prodotto. L’ultimo report dell’Osservatorio europeo sulle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale ritiene che il valore delle merci contraffatte nell’Unione Europea si aggiri intorno ai 120 miliardi di euro. Incalcolabili invece i costi delle scopiazzature compiute ai danni dei prodotti alimentari della tradizione italiana. I più bravi a difendersi? I cugini francesi: il nome champagne è protetto nel mondo meglio dell’oro conservato a Fort Knox. Una lezione per tutti noi che amiamo i brand quasi come noi stessi.

  • senti il rombo del motore

    Una bella notizia? In Italia stiamo costruendo tre impianti industriali in grado di creare tremila posti di lavoro. Un’altra ancor più bella? I tre nuovi siti industriali riguardano la produzione di semiconduttori, una delle attività più avanzate e strategiche che esistono al mondo. E infine la notizia strabella: uno degli impianti sorge ad Agrate Brianza (si stanno già installando i macchinari), quello di Catania inizierà la produzione nel 2023. Il terzo se lo contendono Torino e Verona. Queste installazioni industriali contribuiranno a mutare in modo radicale il paesaggio mondiale dei chip. Un disastro annunciato Forse non tutti sanno che all’inizio degli anni Novanta i paesi produttori di chip erano gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa. Quest’ultima deteneva la stratosferica quota del 44%. Ma, come sappiamo, siamo bravissimi a farci del male da soli. Oggi questa produzione iper-strategica da cui dipende praticamente qualsiasi strumento e processo tecnologicamente avanzati per l’80% è concentrata in Asia. Se poi si analizzano i settori in cui la miniaturizzazione conta di più, c’è da farsi venire i brividi di paura: chi governa i micro-chip comanda il mondo. Quando grazie al Covid e all’aggressività cinese nei confronti di Taiwan, ci si è accorti del disastro a cui si andava incontro si è finalmente corso ai ripari. Il mondo libero alla riscossa Gli Stati Uniti hanno messo sul piatto 52,7 miliardi di dollari. Samsung costruirà in Texas una nuova grande fabbrica, e Tsmc - Taiwan Semiconductor Manufacturing Company – investirà in Arizona. E la buona vecchia Europa? Per nostra fortuna la Commissione Europea ha messo da parte la (spesso miope) ostilità agli aiuti di Stato istituendo il “Chips Act” forte di una dote di 13 miliardi di euro per promuovere la creazione di produzioni le più innovative possibile. Gli esperti di politica economica sostengono che piani di investimento di questa portata non si vedevano da dieci anni. Insomma, una vera e propria inversione di tendenza. Anche Abarth fischierà come Dyson? La sola cosa triste di tutta questa vicenda, lo diciamo da innamorati dolenti, riguarda il futuro dell’auto. Un’auto elettrica ha bisogno del doppio dei semiconduttori necessari a una vettura tradizionale. La guida autonoma addirittura li quadruplica. Certo, l’inquinamento nelle città non è più sostenibile: il costo in vite umane è inaccettabile. Ben venga l’elettrico e ogni aiuto a chi guida “col cappello in testa” e rallenta il traffico. Tuttavia, per chi come noi ama l’auto come l’amava Enzo Ferrari, è una vera tristezza pensare agli adolescenti che tra qualche anno non avranno più modo di praticare l’arte del controsterzo sull’auto di papà. (Per non parlare del suono da aspirapolvere Dyson che emetteranno le auto nel prossimo futuro…)

  • umanesimo digitale

    La scorsa settimana in merito alle minacce della nostra era tecnologica abbiamo riportato il punto di vista di Brunello Cucinelli: “Abbiamo vissuto un trentennio di tecnologia, abbiamo provato a governare l'essere umano solo con la scienza. E non è possibile, ci vogliono scienza e anima. E questo non vale solo per le imprese, ma per tutti noi" ha dichiarato l’imprenditore famoso nel mondo per la bellezza esclusiva dei suoi prodotti. E’ nostra convinzione sia necessario contrapporsi all’ideologia che descrive l’essere umano come un computer molto complesso; e che in un futuro prossimo saranno gli “algoritmi” a governare le nostre scelte. Certo, abbiamo bisogno di più tecnologia perché solo lo sviluppo tecnologico (cioè la conoscenza scientifica applicata) può risolvere i guasti creati dai modi di produrre e consumare arretrati. Fuor di metafora: i disastri dell’inquinamento si risolvono con soluzioni tecnologicamente avanzate non tornando ad un impossibile Arcadia popolata da allegri pastorelli e candide pecorelle. Quindi con “più tecnologia” non con meno. Tuttavia, dobbiamo nel contempo salvaguardare la centralità dell’essere umano rispetto alle macchine. Noi (e non solo noi ovviamente) chiamiamo umanesimo digitale questa concezione del lavoro e dello sviluppo delle forze produttive che riserva all’uomo e a tutto ciò che è eminentemente umano un posto di assoluto privilegio. Procedere in modo impetuoso nella digitalizzazione delle imprese e delle istituzioni è divenuto ormai indispensabile, pena la retrocessione del nostro sistema produttivo; nello stesso tempo solo mettendo l’uomo al centro resteremo umani e continueremo la battaglia che ci vede eccellere nel mondo grazie a produzioni che sposano la qualità all’originalità, la funzionalità all’estetica. E’ davvero il caso di affermare che l’uomo digitale affonda le sue radici nell’uomo del Rinascimento, un’altra delle “invenzioni” made in Italy che hanno avuto un certo successo.

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