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  • perché compongo

    Perché un creativo crea? A questa domanda György Ligeti - di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita – diede la seguente risposta: “Perché compongo? Non per voi, non più per me: per la cosa in sé. Per sviluppare rappresentazioni mentali, fissarle in forma di partitura e ascoltarle “vive”. Con buona probabilità, la più parte degli amici che leggono queste nostre noterelle settimanali è convinto di non aver mai ascoltato la sua musica. Di più: di non sapere neppure chi sia György Ligeti. Nonostante la sua produzione vada essenzialmente annoverata nell'ambito della musica colta contemporanea, Ligeti è un autore popolare nel senso più alto e più nobile della parola. Ha creato brani che segnano in modo indissolubile i film di Stanley Kubrick: Odissea nello spazio, Shining e Eyes Wide Shut. György Ligeti deve la sua popolarità al cinema. Ma il cinema gli deve moltissimo. Senza la sua musica Jack Nicholson che insegue con un’ascia Shelley Duvall in Shining farebbe Rosina,come dicono nei miglior bar di Buccinasco; senza la musica di Morricone, giusto per citare un altro gigante della creatività, i duelli western sarebbero parodie di Fanco Franchi e Ciccio Ingrassia. Del resto è noto che i registi hanno compreso da un pezzo quanta importanza abbia quel modo di scrivere musica e di trattare gli strumenti: l’emozione corre come l’elettricità su un filo elettrico spellato. Per quanto riguarda Ligeti, diciamo semplicemente che la sua musica fa accapponare la pelle. Anche per questo Kubrick lo adorava: in “Odissea 2001” usò le musiche del compositore ungherese per dilatare l’idea stessa di futuro. Tornando alla creatività, nessuno ha ancora ben compreso quali ragioni spingano chi fa il mestiere di creativo a sbattersi invece di andare a pesca di trote, al di là di banali questioni di sussistenza, tipo pagare le bollette e comprare i crocchi al cane (variante: gatto). Primo Levi, insieme a Italo Calvino, il più grande scrittore del Novecento italiano, affermava: “Io so bene quale terribile problema sia oggi in Italia e in tutto il mondo trovare lavoro e sentire se stessi investiti di una piccola funzione sociale. Posso solo dire che è difficile, ma chi a questo minuscolo acquisto di potere può arrivare dovrebbe percepire il fatto di lavorare bene non solo come un dovere, ma come una salvazione”. Frase profonda e salvifica. Ma il tema sollevato dalla confessione di Ligeti pensiamo vada oltre. La conclusione a cui siamo giunti è la seguente: chi fa un mestiere creativo non ha alternative. Potrebbe svolgere in modo accurato un sacco di altre attività. Ma sarebbe un infelice. E sprecherebbe il talento che gli è stato donato dal caso e dalla necessità. Le vicende umane dei creativi sono spesso assai dolorose. In ogni caso non avevano alternativa se non essere sé stessi. Cerchiamo di voler loro bene anche per questo. E’ la creatività che ci ha permesso di scendere dagli alberi milioni di anni fa. E, nonostante tutti i nostri limiti e mancanze, avere un qual certo successo.

  • un uomo solo al comando

    Nelle puntate precedenti avevamo parlato delle avventure di Laxman Narasimhan. Per comprendere meglio come funzionava la baracca il nuovo Ceo di Starbucks si era messo a servire caffè in incognito. La storia la trovate qui. Quello che non sapevamo è che c’era un precedente. Come in ogni giallo l’assassino è sempre il maggiordomo, così in queste vicende aziendali c’è sempre un precedente: ovviamente un altro Ceo, per l’esattezza il signor Dara Khosrowshahi n°1 di Uber. Già da cinque anni alla guida dell’azienda, lo scorso settembre ha comprato una Tesla Model Y grigia di seconda mano e si messo al volante. Le cronache riportano che il boss della compagnia – pseudonimo: Dave K – abbia lavorato come autista nei week end per mesi. Trasportare persone avanti e indietro gli ha consentito di imparare un sacco di cose utili per migliorare l’app di Uber. Lavoro che insieme ai suoi programmatori ha svolto nel resto della settimana. Indossare i panni del taxi driver per molti week end gli è servito non solo a correggere le numerose imperfezioni della app, ma soprattutto a comprendere le ragioni dei suoi dipendenti e i motivi delle loro insoddisfazioni. Questi atteggiamenti sono tipici delle imprese americane. O meglio: della cultura iper-individualista dell’imprenditore statunitense. Per dirla tutta, a noi europei l’impegno richiesto dai criteri investigativi del signor Khosrowshahi – che pure nel 2022 ha portato a casa compensi per oltre 24 milioni di dollari – pare francamente eccessivo. Così come l’aver trascorso ben cinque anni prima di accorgersi che “qualcosa non funzionava”. O funzionava male. Diciamo che, come sempre, è questione di metodo. Sia per migliorare una applicazione digitale, sia per alzare il livello della così detta “customer satisfaction”. Tra la totale indifferenza delle grandi compagnie telefoniche e l’iper-individualismo stakanovista dei Ceo a stelle e strisce c’è una via di mezzo. Anzi più d’una: c’è l’indagine di clima per conoscere l’ambiente interno; ci sono i mistery client quando serve valutare la qualità del servizio nei punti vendita, on-line e off-line. E soprattutto c’è il vecchio, caro, buon senso. Nei manuali di marketing non compare mai sotto questo nome. Eppure funziona persino meglio di un tutorial della Columbia University. La prima regola recita largo circa così: trattenere un cliente costa molto meno che acchiapparne uno nuovo. Se il signor Khosrowshahi ci dovesse mai leggere – vai a sapere - magari i prossimi week-end prende la bici e se ne va a pescare.

  • capolavori di marketing involontario

    Ci sono cose che quando le guardi non puoi trattenerti dall’esclamare “questo sì che è un capolavoro!”. Magari lo pensi e basta - non vuoi fare la figura del fenomeno – ma è quella cosa lì. Accade quando compare qualcosa che inventa un mercato nuovo, nel senso che prima non esisteva; o quando quel qualcosa ha la forza di cambiare per sempre i normali criteri di uso. Giusto per fare un esempio: un telefono portatile che non solo fa le foto, ma le spedisce pure, magari mentre ascolti il tuo brano musicale preferito. Sono buoni tutti a dire che l’Iphone è un capolavoro di marketing (prodotto/performance/design). Ma quanti avrebbero scommesso che l’idea dell’ingegner Giacosa sarebbe stata replicata in milioni di esemplari? E quanti che l’invenzione di Pietro e Gino Sada sarebbe divenuta addirittura sinonimo di prodotto? Diciamo subito per gli otto sfaccendati che insistono a seguirci (grazie, continuate) che l’idea dell’ingegner Giacosa si chiama “Nuova 500 Fiat” e fu lanciata nel 1957. L’invenzione dei Sada fu invece battezzata “Simmenthal”, il marchio alimentare che dal 1923 in Italia è sinonimo di carne bovina in gelatina. Che differenza corre tra l’Iphone, la Fiat 500 e la lessata Simmenthal? Solo il primo è il frutto - pianificato e consapevole – di un progetto di marketing studiato sin nei minimi dettagli. Invece nel caso della piccola auto e ancor più dell’alimento in scatola certamente si perseguiva il successo (quale azienda pianifica il fallimento?) ma non si aveva contezza che il nuovo prodotto avrebbe cambiato per sempre il mercato dell’auto. Semplicemente non si aveva consapevolezza precisa degli esiti. Per questa ragione si parla di “capolavori involontari” di marketing, senza tuttavia scomodare la serendipità che è davvero un’altra storia. In Fiat sapevano benissimo ciò che facevano: una buona piccola vettura. Ma non si aspettavano risultati così clamorosi. Analogamente i Sada non pensavano di aver creato un long-seller che avrebbe dominato per decenni il mercato. Una speriamo non troppo lunga premessa per arrivare a una storia dei giorni nostri. Il sipario si alzerà il 17 aprile e avrà inizio quella che ormai tutti chiamano design week. Un altro di quei “capolavori involontari” di marketing di cui noi italiani siamo con buona evidenza i migliori produttori al mondo. Nato nel 1961 il Salone Internazionale del Mobile è diventato subito la più importante manifestazione mondiale di settore. Un successo programmato, cercato e perseguito con la tipica tenacia che distingue l’imprenditore lombardo da qualsiasi altro campione della sua specie. Operosità, inventiva, maniacalità. Ma allora, se c’è tutto questo impegno e tutta ‘sta fatica, cosa c’entra il marketing involontario, direte. C’entra. Perché il Salone era nato per starsene buono in Fiera. Prima in quella vecchia e poi in quella nuova disegnata dal Fuskas. Poi successe l’impensato e francamente pure l’impensabile. Le aziende che non avevano trovato posto in Fiera (ma anche quelle che il Salone lo praticavamo religiosamente tutti gli anni) iniziarono a fare il così detto FuoriSalone, che altro non è che una festa continua di esposizioni, eventi, mostre di progettisti, designer e produttori che hanno qualcosa di nuovo da dire e da vendere. E la città di Milano, il terzo amante dell’impensato triangolo amoroso, s’accese immediatamente aprendo spazi, cortili, piazze e persino le sedi delle varie Università. Ecco che, come una reazione nucleare controllata, il capolavoro involontario di marketing prende avvio e tutta la città ne è coinvolta. Per una settimana le strade e i locali di Milano diventano proprietà del migliore degli invasori: migliaia di visitatori che da ogni angolo del pianeta convergono verso la più piccola delle grandi città europee. Una meraviglia di voci, linguaggi, stili e abitudini. Una festa che forse neanche quel visionario di Steve Jobs avrebbe mai immaginato.

  • un frappuccino® di qualità, grazie

    Tanto di cappello. Laxman Narasimhan, il nuovo Ceo di Starbucks, ha servito di persona il caffè nei punti vendita della catena. L’ha fatto, così dice, per conoscere personalmente tutti i meccanismi della compagnia. Pare che il signor Narasimhan - 55 anni, nato in India, ingegnere meccanico, master in tedesco, studi internazionali e finanza, sei lingue parlate e scritte - guadagni diciotto milioni di dollari l’anno. Per mesi ha fatto il barista in molti punti vendita della caffetteria più famosa del mondo e ha intenzione di continuare a farlo. Premesso che chi scrive non possiede azioni Starbucks, la domanda tuttavia sorge spontanea: come farà il nuovo Ceo a sperimentare di persona la qualità del servizio considerato che Starbucks ha 55 mila caffetterie sparse nel mondo? Data la complessità di un business così complicato non sarebbe forse il caso di delegare almeno questa attività? Al di là dei problemi che il signor Narasimhan affronta coraggiosamente in prima persona, il tema di questo post è la qualità. Come ben sanno anche i bambini delle scuole elementari, c’è qualità e qualità. Quella del produttore: quando il pezzo (componente o elemento del processo) risponde agli standard, lui ritiene terminato il suo compito. Quella del venditore, che una volta compilato a dovere il copia-commissioni ritiene esaurito il suo compito. E infine quella percepita dal consumatore, teoricamente la più importante La qualità a più elevato tasso di criticità è quella che riguarda un servizio. Generazioni di direttori marketing si sono rotti la testa cercando di risolvere problemi come l’omnicanalità che neanche Pitagora nei suoi momenti migliori; battaglioni di controller soffrono di alopecia causata dalla necessità di trovare una quadra tra costi, sconti e prezzi del negozio digitale e di quello fisico; manipoli di amministratori delegati hanno perso il sonno nel tentativo di semplificare i processi e salvaguardare i margini. Per non parlare di chi, come il tenace signor Narasimhan, vuole verificare di persona financo la temperatura media del caffè servito nei suoi negozi. Eppure la risposta non è difficile. Al consumatore non interessa lo zero-virgola-zero, l’omnicanalità come pure l’andamento dei prezzi all’ingrosso. A lui interessa solo una cosa: quella che in gergo si chiama la “sbatta”. Che si tratti di prelevare denaro contante al bancomat, effettuare un bonifico, comprare un aliante on-line piuttosto che affittare un gorilla di montagna per la festa di compleanno dei piccini, la differenza la fa la quantità della sbatta. Quante volte abbiamo cercato informazioni al telefono oppure on-line e per tutta risposta dovevamo pigiare 1 e poi 3 e poi aspettare? E quante volte, dopo aver aspettato, la linea cadeva, il download non funzionava, le “spiegazioni” non spiegavano e compilare il “pratico form” equivaleva a risolvere equazioni di terzo grado? Quante volte abbiamo dovuto fare una coda, e poi un’altra e poi stare ancora e comunque in attesa di qualcosa o di qualcuno? Eccetera, eccetera, eccetera. La cosa più divertente (se non fosse tragicomica) è che anche i direttori marketing, i controller e pure gli amministratori delegati sono consumatori. Anche loro subiscono il giogo dello sbatti.Insomma, vuoi vedere che quel pessimista cronico d’uno Schopenhauer aveva ragione con la sua fissa che l’inferno è qui sulla terra?

  • se non paghi torno a casa

    “Hey, in questo mondo di ladri / C'è ancora un gruppo di amici / Che non si arrendono mai” cantava Antonello Venditti nell’ormai lontano 1988. Tra le molte forme di ruberia che ci affliggono, la categoria di chi compra un’auto a rate e non rispetta le scadenze deve aver indispettito in modo particolare i dirigenti della Ford. Al punto che l’impresa di Dearborn, Michigan, ha depositato un nuovo brevetto. In futuro le sue auto, in caso di mancato pagamento, saranno in grado di tornare da sole come pecorelle giudiziose dal concessionario dove sono state acquistate. Ma non solo. Poiché in tutto esiste una gradualità, il “ritorno automatico” è l’ultima arma per costringere il compratore fraudolento a cacciare il grano come (non) dicono ad Harvard. Prima di questo esito fatale, il venditore potrà ordinare all’auto di compiere fastidiose azioni di disturbo che, al confronto, il Pierino di Alvaro Vitali fa parte dei Pueri cantores della Cappella Sistina, come il blocco della navigazione GPS e dell’aria condizionata, sino all’emissione di un “suono incessante e sgradevole”. Prima dell’ultima ratio del ritorno in concessionaria, il sistema potrebbe rendere inutilizzabile l’auto nel week-end consentendone tuttavia l’uso nel corso della settimana per non pregiudicare la capacità del debitore di pagare la rata. Purtroppo (per fortuna?) anche in questa storia c’è un “se”. Tutto ciò è possibile solo su automobili a guida totalmente autonoma. Cosa ancora piuttosto al di là da venire. In proposito, Ford ha comunicato che per ora si tratta solo di ‘’un brevetto su una nuova invenzione e questo non rappresenta necessariamente un’indicazione di nuovi piani commerciali o di prodotto’’. Questa vicenda ci spinge a riflettere sulla relazione che lega indissolubilmente il creditore al debitore. Non solo è antica quanto il mondo, ma è uno dei motori che lo mandano avanti. Fragile e delicata come tutte le relazioni vitali, si basa sulla fiducia reciproca e sulla capacità da parte dei venditori di “fiutare” l’affidabilità dell’acquirente. Certo, le aziende – giustamente – spingono le vendite. L’ultimo esempio è il “buy now pay later”, tecnica di credito al consumo proposto anche per acquisti di modesta entità. A volte accade che gli acquirenti perdano il controllo riguardo alla loro effettiva capacità di spesa. Tuttavia, come sempre bisogna distinguere: un conto sono gli errori commessi in buona fede, un altro è l’uso sistematico della buona fede altrui. Verrebbe da augurarsi che, in attesa di un’auto a guida totalmente autonoma, la prossima generazione fosse dotata di una serratura automatica. In caso di (ripetuto) mancato pagamento, il debitore seriale resterebbe imprigionato all’interno della vettura. Beninteso, senza passare dal via.

  • la rivoluzione salta sulla schiena

    Nei giorni scorsi praticamente tutti i mezzi di informazione hanno dato risalto alla scomparsa di Richard Douglas Fosbury. Nel mondo dello sport era noto come "Dick Fosbury". A lui si deve l'invenzione di una tecnica che non è eccessivo definire rivoluzionaria. Mentre tutti gli altri utilizzavano lo scavalcamento ventrale, lui saltava rovesciando il corpo all'indietro e cadendo sulla schiena. Con questa tecnica Dick Fosbury vinse la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 stabilendo il nuovo record olimpico con la misura di 2,24 m. L’imprescindibile Vocabolario Treccani definisce la parola rivoluzione come “mutamento, trasformazione, innovazione radicale”. Quando qualcosa contribuisce a mutare la realtà in modo determinante e imprescindibile. E’ stata una rivoluzione l’invenzione del vapore e poi del motore a scoppio. Il risultato è che oggi nessuno sano di mente viaggia più tra Meda e Milano sulla carrozza a cavallo. E’ stata una rivoluzione la micro-elettronica e ancor più l’avvento di Internet, secondo il Premio Nobel Rita Levi Montalcini la più grande invenzione nella storia dell’umanità. A proposito di rivoluzione crediamo sia interessante notare come ogni innovazione dia vita a una rivoluzione; mentre, come sappiamo, non è affatto vero il contrario. Resta da chiedersi quale sia il filo rosso che unisce l’invenzione del treno a vapore, del World Wide Web e del "Fosbury Flop". La risposta è semplice: il pensiero divergente e la tenacia. La tenacia e il pensiero divergente. Senza tenacia le idee (apparentemente) folli restano chiuse in un cassetto. Senza pensiero divergente la tenacia si tramuta in stupida cocciutaggine. Nel suo campo (verrebbe da dire: nel suo mestiere) Richard Douglas Fosbury è stato un tenace creativo: è andato controcorrente. E invece di fare la fine del salmone, ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Le cronache raccontano che nella gara che lo consegnò alla storia indossasse scarpe di colore diverso. Pare che abbia giustificato la scelta sostenendo che il colore della destra gli dava una spinta verso l'alto maggiore di qualunque altro tipo di calzatura. Il che dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che i creativi oltre ad essere utili come la manna caduta dal cielo spesso sono pure assai divertenti.

  • lo chiamano garage anche se sembra uno show-room

    Parliamo ancora di Cupra. No, non si tratta di un post sponsorizzato. Anche se ci piacerebbe, il nuovo brand automobilistico al momento non è nostro cliente. La storia di Cupra, creatura nata da una costola di Seat – segreto di Pulcinella che è comunque vietatissimo divulgare - profuma di successo sin dalle origini. I bene informati raccontano che l’intuizione fu di Luca De Meo, il più talentuoso dei Marchionne boys, l’inventore della nuova 500, oggi a capo di Renault. Fu lui il primo a comprendere che Seat, brand dal patrimonio genetico che più truzzo non si può, non avrebbe mai potuto generare qualcosa di potentemente nuovo. Il progetto prese quindi le mosse sotto forma di spin-off, e Cupra in ordine temporale è l’ultimo pulcino covato dallo straordinario Gruppo Volkswagen. Ma non è di pettegolezzi automotive che desideriamo parlarvi. E neppure di modelli, performance e impressioni di guida. Questo postarello è dedicato alla più negletta delle virtù di marketing, la famosa “customer experience” che - come la sora Camilla, quella che tutti la vogliono e nessuno la piglia - tutti sostengono di praticare anche se nei punti vendita non se ne vede traccia. Ebbene, Cupra sembra diversa anche in questo. Si trattava di lanciare un brand nuovo in un settore (quello dell’auto) persino più affollato della metro al Duomo nell’ora di punta. Si trattava di creare notorietà, interesse e memorabilità in tempi rapidissimi. Che hanno fatto i sagaci cupraroli? Aperto un bel salone a ridosso degli svincoli delle tangenziali, dove ormai stazionano i venditori di auto? Sbagliato. Proprio perché sagaci (colui “che dimostra o denota intelligenza pronta e perspicace, acume e avvedutezza”) hanno tirato fuori i danè come si dice a Milano e inaugurato uno show-room in Corso Como, all’angolo piazza 25 Aprile, in una zona divenuta trionfo dell’apericena e dello struscio semi-chic. Che esperienza potranno esperire (scusate il bisticcio) le persone che entrano nello spazio Cupra? Innanzitutto il racconto di un mondo, declinato da una serie di oggetti simbolici che neanche Duchamp, quello dell’orinatoio ribattezzato “Fontana” divenuto opera d’arte, avrebbe potuto immaginare. C’è la pista delle macchinine e i chiodi in pelle dedicati, c’è il vastissimo bancone-bar e – incredibile! – ci sono persino un paio di vetture in bella mostra. Insomma, l’impressione è che Cupra abbia imparato parecchio dal mondo della moda e del design: prima di venderti un prodotto devo venderti una storia. Teoria che noi nel nostro piccolissimo sosteniamo da anni.

  • il lato oscuro della luna

    Oggi festeggiamo una data eccezionale: il 1° marzo 1973, giorno in cui in America venne pubblicato “The Dark Side of the Moon”, capolavoro assoluto nella storia della musica. Non bastano i numeri - cinquanta milioni di copie vendute, unico disco ad aver trascorso 950 settimane nella Billboard 200 – per spiegare come il valore di quest’opera vada ben al di là dell’appartenenza al genere rock. Pur avendo grande rispetto e considerazione per i dati di vendita, ciò non toglie che la quantità da sola non basti a spiegare il valore di un’opera d’arte; pensiamo a Bach, il padre musicale di tutti noi, sparito dai radar per più di un secolo e riscoperto solo agli inizi dell’Ottocento. Per dirla tutta, siamo certi che anche Mozart – un appassionato sperimentatore di strumenti e di sonorità nuove – avrebbe apprezzato il talento dei Pink Floyd e (soprattutto) invidiato i loro apparati tecnologici. Se dovessimo definire in tre parole “The Dark Side of the Moon” non avremmo dubbi: innovazione, bellezza, genialità. Le tre grandi categorie dello spirito che distinguono i prodotti di successo (quelli per intenderci che “fanno i numeri”) dai capolavori destinati a valicare le barriere del tempo. Tra cinquant’anni chi scrive sarà a passeggio nei Campi Elisi, e nel frattempo sulla Terra saranno in parecchi a godersela ascoltando il lato oscuro della Luna. La vita è breve, ma la grande musica non muore mai.

  • nove metri quadrati di passione

    “Piccolo è bello”. Lo ricordate? Era uno slogan, a dire il vero abbastanza deficiente, di moda qualche anno fa. Poi per nostra fortuna l’abbiamo gettato nel dimenticatoio. Nel frattempo, nel doppio ruolo di produttori e consumatori quali tutti noi siamo, abbiamo imparato che “piccolo – medio – grande – grandissimo” – possono tranquillamente essere sia orribili sia meravigliosi. Insomma, che dipende. Questa però è una storia che più piccola non si può. Riguarda il più piccolo panificio d’Europa, meno di nove metri quadrati. Si trova a Milano, zona Porta Venezia. E’ la storia di Matteo Trapasso, il temerario ventiquattrenne che pochi mesi fa ha aperto il suo TraMa nella città dove gli affitti hanno superato le stelle della Cintura di Orione. Ma lui, Matteo, voleva fare le sue torte e i suoi pani nella città più città della Lombardia. Ne parliamo non tanto perché il sogno di Matteo si sta avverando - ogni giorno il micro-panificio sforna una decina di torte e 50 chili di pane – ma perché è un progetto a tutti gli effetti. Riguarda sia l’offerta di prodotto, centrata su di un mercato come quello milanese alla costante ricerca di genuinità artigianale, sia per l’impiego intelligente delle leve di comunicazione. Per dare vita alla sua attività Matteo ha infatti lanciato nel mese di luglio una campagna di crowdfunding su Gofundme con ottimi risultati. Certo, viviamo in un’epoca irta di difficoltà e minacce, immersi a bagnomaria nella più straordinaria rivoluzione industriale che il mondo ricordi dall’età del vapore e del ferro. Avveduti, informati e disincantati come siamo, non crediamo più a niente, neppure alle favole. Eppure, se recuperassimo un poco di quell’ingenuo ottimismo che ha consentito ai nostri padri e ai nostri nonni di trasformare un insignificante paese uscito distrutto dalla guerra nella seconda potenza manifatturiera d’Europa, male non sarebbe. Quella voglia allegra di pensare il futuro e di provare a costruirlo in modo nuovo. Anche perché, senza pane, senza vino e senza passione, la vita non ha un gran sapore.

  • semplice, facile, solidale

    Le imprese devono essere buone se vogliono vendere di più? Vecchia domanda che angoscia il povero direttore marketing e non solo lui. La risposta è sotto gli occhi di tutti: sponsorizzazione di eventi di cui non si conoscerà mai il reale ritorno economico, campagne di greenwashing che suonano più false del rombo di una 500 Abarth elettrificata, loghi e loghetti sparsi come coriandoli a Carnevale sulla “Giornata di X” e il “Mese di Y”. Come tanti Pinocchi sorpresi dalla Fata Turchina, i brand sussurrano le solite promesse: sono buono, comprami. Non inquino (più) comprami. Non sfrutto manodopera minorile nel terzo mondo. Voglio bene ai delfini e alle balene. E se proprio insisti, pure ai calamari. Così, quando un’impresa compie un’azione immediatamente, concretamente e semplicemente solidale, ci stupiamo come bambini il giorno di Natale. Fastweb che – detto per inciso e con le lacrime agli occhi – non è nel nostro portfolio anche se ci piacerebbe moltissimo lo fosse, il giorno 13 febbraio ha inviato a tutti i suoi clienti una mail. Gentile cliente in aiuto delle popolazioni di Turchia e Siria duramente colpite dal sisma, e per facilitare le comunicazioni con i propri cari e sostenere le attività commerciali, in segno di solidarietà Fastweb azzera per tutti i propri clienti residenziali, p.iva e piccole e medie imprese il costo delle chiamate da rete fissa, di sms e roaming da rete mobile, da e verso la Turchia e la Siria. L’iniziativa avrà validità da oggi e fino al 31 maggio”. Il Team Fastweb Zero costi per circa cento giorni. Non conosciamo l’ammontare dell’operazione. Come Henry Ford buonanima, anche noi siamo convinti che su 100 euro spesi in comunicazione la metà sono soldi buttati. Purtroppo, né lui né noi, sappiamo quale delle due metà sia quella giusta. Fastweb aumenterà le vendite? Migliorerà la retention? Vedrà crescere la reputazione? Vincerà il prossimo Ambrogino d’oro? Mistero fitto che neanche il mago Otelma. La sola cosa che ci sentiamo di ipotizzare è che i clienti di questo brand, almeno per qualche tempo, eviteranno forse di affermare che le compagnie telefoniche sono tutte eguali. Risultato da non buttare, considerando le tonnellate di illusioni che abbiamo dovuto riporre nel cassetto in attesa di tempi migliori.

  • non tagliare, spalma

    Chiediamo perdono, ci siamo fatti scappare un appuntamento importante. Ne parliamo solo ora in (grave) ritardo: domenica 5 febbraio si festeggiava il “Wolrd Nutella Day”. Inventato dalla blogger americana Sara Rosso e adottato ufficialmente dal 2015 dal gruppo Ferrero, è giunto alla sedicesima edizione. “I fan hanno iniziato a celebrare Nutella® condividendo immagini, idee, ispirazioni e ricette sui social media: è così che il World Nutella® Day è diventato un fenomeno globale” dichiara l’Azienda sul sito dedicato all’evento. Un vero e proprio “compleanno social”: l’hashtag della festa ha superato i 72 milioni di interazioni. Intendiamoci, la Nutella può non piacere. Come possono non piacere le 500 Abarth o il formaggio Philadelphia. Ma è fuor di discussione che Nutella è a tutti gli effetti un capolavoro di marketing prim’ancora che un fenomeno di costume. Il Nutella Day, iniziativa nata spontaneamente dalla passione di un consumatore, ne è testimonianza ed esempio al tempo stesso. Dal film “Bianca” di Nanni Moretti sino al libro “Nutella Nutellae” di Riccardo Cassini, successo editoriale citato dai linguisti della Sorbona di Parigi oltre che dalla prestigiosa rivista “New Yorker”, la crema spalmabile che può vantare il maggior numero di imitazioni al mondo è uno dei pochi brand mondiali la cui notorietà attraversa in modo trasversale gruppi sociali, profili demografici, popoli e nazioni. Come spesso (o meglio: come quasi sempre) accade in Italia, le idee divenute grandi prodotti sono il frutto del capitalismo familiare. Inventata nel 1951 da Pietro, geniale pasticcere di Alba, viene perfezionata dal figlio Michele nel 1964 quando, dopo molti tentativi, trova un equilibrio miracoloso tra latte, cacao e frutta secca. Michele Ferrero è un uomo che pensa in grande in ogni cosa faccia. E’ lui che sceglie un nome adatto ad un mercato globale. Un nome semplice e memorabile nel quale il sostantivo “nut” (nocciola in inglese) acquista la carica d’affetto donata dal suffisso vezzeggiativo “ella”. Il resto è cronaca. Come i milioni di vasetti di Nutella trasformati in orridi bicchieri che arredano (si fa per dire) milioni di case nel mondo. Diciamo che forse questo è il solo elemento disdicevole di una storia che andrebbe insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado. Non solo la storia di un’impresa di straordinario successo, ma soprattutto la cultura che sta dietro a questo successo. Che ci piaccia o no, tra le molte altre cose che dànno senso alla nostra esistenza c’è il bisogno che qualcuno riconosca che abbiamo la stoffa per fare… qualcosa che solo noi sappiamo fare in quel modo. E’ la benedetta diversità che ha trasformato un piccolo disgraziato paese uscito distrutto dalla guerra, nella seconda potenza manifatturiera d’Europa, l’inventore di uno stile di vita ammirato e copiato nel mondo.

  • darwin ha sempre ragione

    Nei giorni scorsi gironzolando tra i canali tivù ci siamo imbattuti in “Città segrete”, programma ideato e condotto da Corrado Augias. La puntata era dedicata a Torino. Inutile dire che tra la Mole Antonelliana, il Parco del Valentino e la menata di Torino “città magica” insieme a Lione e Praga, abbiamo rischiato più volte l’abbiocco. Non abbiamo cambiato canale per un solo motivo: la curiosità di vedere come il tema automobile sarebbe stato trattato. Augias non ci ha delusi: scoprire che, all’inizio del ‘900, tra motoristi, telaisti e carrozzieri a Torino erano più di cento le imprese dell’auto, è stata davvero una sorpresa. La città dei Savoia, perduto il rango di capitale d’Italia a favore di Firenze e poi di Roma, aveva saputo reinventarsi diventando la capitale automobilistica d’Italia. Tignosi come siamo, ci siamo presi la briga di approfondire. Se tutti sanno che Torino è cresciuta con l’automobile e per l’automobile, forse non è altrettanto noto che a Torino furono ben 47 le fabbriche automobilistiche costituitesi tra il 1898 e il 1908 contro le 32 di Milano, le 8 di Roma e le 5 di Genova. Per dare un’idea delle dimensioni del mercato dell’auto basti sapere che nel 1899 circolavano 111 veicoli, diventati 2174 nel 1905 e 7762 nel 1910. Nell’anno dell’entrata in guerra (1915) i veicoli circolanti in Italia erano quasi 25.000. Oggi nel nostro paese le vetture circolanti sono 37 milioni. Praticamente un’auto ogni 1,65 abitanti. Amiamo l’auto come e più della mamma: dopo il piccolo Lussemburgo siamo il paese con la maggiore densità di autoveicoli (663 ogni 1000 abitanti). Un successo che viene spontaneo definire darwiniano: al successo quantitativo corrisponde la drastica riduzione della varietà delle specie. Quante sono le marche automobilistiche sopravvissute dopo un secolo? Amiamo i motori e i brand automobilistici con il romanticismo demodé dei nostalgici. Inevitabile provare stupore prim’ancora che emozione di fronte ai numeri di Cupra. Il nuovo brand, nato nel 2018 dalle costole di Seat grazie alla felice intuizione di Luca de Meo, uno dei più brillanti Marchionni-boys, galoppa come Furia cavallo del West. Nel 2022 Cupra ha consegnato nel mondo 152.900 unità, il doppio dell’anno precedente, conquistando il primato di marchio automobilistico a più rapida crescita in Europa. Inutile ricordare che “consegnato” significa assai più che “venduto”. La storia della moltitudine di brand europei spariti dalla circolazione la dice lunga sulle difficoltà strutturali del settore automobilistico. Oltre a richiedere investimenti di entità spaventosa, il mondo dell’auto è caratterizzato dall’alto grado di ciclicità intrinseca oltre che dalla volatilità dei margini. Ovvio che il futuro appartenga a un piccolo numero di produttori mondiali, i soli con le spalle sufficientemente grandi per rispondere alle sfide. Gli esseri umani però non la pensano come il signor Henry Ford quando affermava che i suoi clienti “possono ottenere un'auto colorata di qualunque colore desiderino, purché sia nero”. Nonostante tutto, nonostante la massificazione del gusto e dei consumi, le persone non vogliono essere tutte eguali. In particolare, non vogliono guidare la stessa auto. Se in un prossimo futuro le case produttrici si conteranno sulle dita di una mano, siamo però fiduciosi che ciò non accadrà alle marche e ai modelli. Nota Henry Ford, genio della produzione automobilistica, amava raccontare bugie. Tra il 1908 e il 1914 e nel biennio 1926 1927, la model T Ford era disponibile anche in verde, marrone, grigio e blu.

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